Massimiliano Giornetti: “Creatività e materia vivono in osmosi”

Direttore del Polimoda di Firenze ed ex direttore creativo di Ferragamo, Massimiliano Giornetti (in foto) ha una visione multiculturale della moda dove si fondono creatività, antropologia, economia ed arte. Dove i tessuti con la loro tattilità hanno una grande importanza nel processo creativo. Tanto che Polimoda ha ideato, insieme a Li Edelkoort, il master in textile From Farm to Fabric to Fashion, che partirà ad ottobre. 

Come è nato il progetto di un master in textile al Polimoda? 

Oggi si dibatte molto sulla sostenibilità, ma ci siamo resi conto che si tratta ancora di greenwashing, manca cioè la parte informativa che spiega il concetto di cosa sia veramente sostenibile. Spesso si parla di cotone organico che non è di per sé sostenibile poiché la coltivazione implica grandi quantità di acqua e di pesticidi, oppure si demonizza la pelle che invece è per sua natura sostenibile. Si è quindi innescato un meccanismo perverso nella mentalità della generazione Z, quella dei futuri creativi della moda. Li Edelkoort, con la quale avevo già collaborato in Ferragamo, da oltre 20 anni è molto attiva nel mondo della ricerca textile proprio a salvaguardia delle tradizioni, del knowhow e della capacità di partire da un materiale spesso povero e poi trasformarlo con l’abilità creativa e artigianale in una materia preziosa come un tessuto, fortemente legato al concetto della sostenibilità. Abbiamo quindi pensato che fosse necessario proporre un master per affrontare correttamente e scientificamente le nuove sfide nel tessile e nella sostenibilità. Fra l’altro, Polimoda è la prima scuola a diventare Advocate for the United Nations sul tema della sostenibilità nella moda collaborando al Conscious Fashion Lifestyle Network.

Come si articola il master? 

Dovendo svilupparsi nell’arco di 2 anni è stato diviso in 4 step.  La ricerca parte dal concetto di farm, dall’analizzare la fibra animale, vegetale e artificiale. Anche in questo caso dobbiamo andare più in profondità per indagare se una fibra artificiale possa essere più o meno sostenibile di una naturale. Va spiegato il concetto di recyling che proviene dal recupero dei materiali o dalla lavorazione di scarti come è avvenuto, ad esempio, per la Orange Fiber che è stata alla base di un progetto che avevo seguito in Ferragamo. C’è bisogno di immergersi a 360 gradi nella ricerca, che nello stesso tempo è sociologica, antropologica, e archeologica, perché nell’archeologia il concetto di conservazione del tessuto è molto presente e quindi la conoscenza del passato dimostra come alcune fibre siano parte della nostra cultura e ancora oggi possono continuare a farne parte sempre nel rispetto dell’ambiente. Il passato deve però guidarci verso il futuro, preservando la tradizione, ma nel contempo proiettandoci  verso i nuovi bisogni, quelli ad esempio innescati dalla pandemia, che nel campo della moda ha portato alla luce nuovi valori e attitudini.  Abbiamo limitato gli spostamenti, ma compriamo di più, facilitati dal web, trasformandoci in accumulatori seriali.  Dopo tutto noi siamo quello che indossiamo. 

Dopo la ricerca quali step sono previsti?

Ci addentriamo nella tessitura, ma non vogliamo creare dei tecnici del textile andando a sovrapporci alle scuole tecniche. Si tratta di trasmettere una sensibilità diversa che abbia però delle basi solide di conoscenza. C’è poi la parte che abbiamo chiamato Embellishment, che viene dopo la tessitura e che riguarda il finissaggio, il ricamo, eccetera, fasi che elevano le fibre alla magnificazione e alle performance. Infine l’ultimo step riguarda la parte fashion, che oggi non è più solo una decorazione del corpo, ma una lifestyle experience. La contaminazione fra interior, food (stiamo lanciando un progetto che si chiama Food Styling), automotive ha dimostrato come l’uomo è al centro di un processo creativo a 360 gradi che condivide non solo valori estetici, ma anche etici, di performance, di sostenibilità. 

Quanto conta la materia nella creazione del capo? 

Disegnare moda parte dalla capacità di drappeggiare intorno al corpo un tessuto e quindi creatività e materia è un binomio fondamentale, una necessità importante anche per la generazione Z dei futuri creativi. E’ quindi dalla scuola che deve iniziare una forma di educazione e informazione corretta e scientifica per sconfiggere i falsi statement di cui parlavamo prima. 

Nel percorso formativo di una scuola di moda, quanto è importante documentarsi nelle fiere, come Milano Unica, che è il più importante hub del tessile?

Per me è fondamentale la vicinanza creativa fra un designer e la materia prima. La moda è la più contemporanea forma di arte perchè vive proprio con le persone: quando un uomo e una donna entrano nell’abito con la propria personalità e attitudine lo plasmano e creano quella formula magica che diventa moda. Di fatto la moda è un abito che è composto di un tessuto e il legame fra disegno e materiale è simbiotico. Quindi per il mondo accademico delle scuole è fondamentale partire dal materiale, che spesso rende riconoscibile un designer (ad esempio per Ferré era l’organza bianca) e l’incontro con la materia e i produttori avviene proprio nelle fiere. I giovani possono toccare le superfici e capire come certe texture funzionano per alcune costruzioni e non per altre, e come il tessuto può dar forma al capo. E’ importante avere questa sensibilità che è sì intrinseca alla persona, ma arriva anche con l’esercizio. La scuola è come l’ateneo dei greci, il concetto di scholè, dove l’ esperienza della scuola unitamente all’audacia del giovane porta a una forma di sperimentazione. 

Quindi il contatto con le aziende è fondamentale?

Questo continuo contatto con le aziende è importante perchè la moda non è mai statica e una fiera come Milano Unica, che rappresenta l’eccellenza mondiale nel raccontare la singolarità di ogni azienda, è un momento di incontro e di interazione reciproca. E’ importante per accelerare questa capacità di captare i cambiamenti e sensibilizzare un giovane creativo non ancora contaminato dalle regole del marketing e del merchandising. 

La tattilità è ancora imprescindibile nella moda, nonostante il metaverso e le nuovissime tecnologie? 

Sono appena rientrato dalla presentazione di un progetto di Polimoda che si chiama Talents all’interno del quale abbiamo selezionato uno dei nostri  Alumni di grande talento che ha fatto un  progetto legato al metaverso.  La nuova generazione, nata digitale e connessa attraverso un device, si incontra nel metaverso, pur essendo a volte addirittura nella stessa casa. Ecco, credo che nel futuro ci sarà un bridge fra quello che è digitale e reale, ma dall’altra parte non posso pensare di allontanarmi dalla vita reale che comporta il gesto di indossare un abito, una ritualità che è ancestrale in tutte le culture, come il concetto della vestizione del corpo o l’azione di adornarlo, espressione più intima della propria personalità per la scelta di un colore o l’abbinamento di vari  elementi. Tutto questo è stato evidenziato dai social, che hanno portato a una forma di democratizzazione e abbattuto barriere legate all’inclusività e alla diversità. Per me questo è un aspetto positivo, anche se ci  sono sempre dei pro e dei contro. E’ positivo che i nostri studenti oggi abbiano una diversa consapevolezza e capacità di adornare il proprio corpo, che è ben distante dalla nostra generazione. E mi riferisco a studenti eterosessuali che approcciano il vestirsi in modo totalmente nuovo, ad esempio aggiungendo una collana di perle o elementi che prima avevano una connotazione femminile o gay; oggi questo confine è stato abbattuto. Lo trovo straordinario e mi affascina vedere questa nuova generazione avulsa dagli stereotipi di genere. Credo che sia una vera conquista e l’aspetto legato al vestire, quindi quello tattile, rimane fondamentale. 

(Nella foto sopra, un’immagine della sfilata Polimoda)

di Flavia Colli Franzone

The Style Lift

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