La slow fashion di Pietro Paradiso inizia dai tessuti

La Puglia è il fil rouge della vita e dell’attività di Pietro Paradiso (qui sotto, nella foto), stilista pugliese che in passato ha collaborato con la maison Valentino, Ted Lapidus a Parigi, Demetrios &Illissa a New York, Carlo Pignatelli e altri brand. E’ il mantra che lo lega al territorio, alla cultura della sua terra, alla ricerca che fa per i tessuti e per i vestiti, sempre pezzi unici e concettuali, di alta qualità e manualità, quintessenza di una slow fashion dove la lentezza porta ad antiche tecniche e tradizioni nelle lavorazioni. Anche il fascino dell’Oriente è una costante nelle sue collezioni, esercitato dalla posizione geografica stessa della Puglia, lontano punto di incontro fra i commerci, le culture e i costumi di Oriente e Occidente. 

Dalla Puglia nel mondo e ritorno, come si vede nella sua moda questo legame?

Per me la Puglia è fonte di ispirazione continua, ha un effetto calmante sull’anima e sul mio lavoro. Ho fatto persino una collezione ispirata alla xilella (un batterio che ha colpito gli olivi, ndr), ai suoi effetti sulle piante le cui radici hanno influenzato i gioielli e sono anche diventate bottoni per alcuni capi. Ho macerato i tessuti nella terra, li ho tinti nel vin cotto di fichi, uno scriroppo denso nel quale si usa intingere la cartellata natalizia, dolce della tradizione locale. Il tessuto risulta morbidissimo e malleabile.   

Quindi una grande ricerca sui tessuti…

Ho sempre cercato materiali con destinazioni d’uso diversi dall’abbigliamento, ad esempio tessuti a telaio usati per materassi e coperte da corredo. Questo mi ha spinto a fare un corso di annodature come si faceva una volta per cucire gli abiti a mano e per fare le frange. Così ho realizzato capi in juta foderati in shantung di seta che viene sfrangiato a mano. Una volta in Turchia ho acquistato dei tappeti kilim che mi hanno affascinato. Tappeti non annodati ma jacquard, a telaio, che nascondevano nelle trame dei sigilli che ricorrono nella terra dei Saraceni, approdati sui litorali della Puglia. 

Un approccio sostenibile alla moda, quindi.

Ho iniziato a essere sostenibile 20 anni fa. Per me vuol dire andare alle radici della cultura dei materiali. Certi miei capi non sono neppure contaminati dalle macchine da cucire, ma costruiti interamente a mano. 

Quali sono i tessuti a lei più cari?

Le sete e i velluti perché sono appassionato di kaftani per il loro legame con l’Oriente che influenza anche la mia terra. E poi ricami e dettagli preziosi di grande bellezza, che per me esprime anche profondità d’animo. 

Utilizza anche tessuti vintage? 

Il tessuto è vivo, ho imparato a “leggere” e decodificare la sua essenza. Ho fatto un lavoro sui paramenti sacri attraverso gli archivi dei conventi. Tessuti e ricami che sono ricchi di simbologia e messaggi. Bisogna tornare alla sacralità della moda, alla sua essenza, perché un abito ci fa star bene e cura le ferite emotive della persona. 

Chi sono le sue clienti? 

Signore colte, affascinate più che dal capo dal messaggio che comunica. 

Quali tessuti usa per la collezione invernale? 

Per i cappotti uso feltri naturali e lane cotte, il cashmere per la versione invernale del kaftano. E poi i velluti che, anche se sono meno nobili di altri tessuti, avvolgono bene il corpo. 

E per l’uomo?

Solo capi su misura. Giacche in velluto floccato, lana, shantung per silhouette destrutturate, dall’appeal orientaleggiante, che piacciono sia ai clienti italiani sia agli stranieri, anche dei paesi arabi. Sto preparando un evento a Dubai durante l’Expo per far apprezzare la manualità e il fascino del made in Italy.  

The Style Lift

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